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Parere legale

Risponde l’avvocato Francesca Pisani

Nata a Busto Arsizio il 27.9.1985, dopo aver conseguito la maturità presso L’ITCG Carlo Dell’Acqua si laurea in Giurisprudenza presso l’Università LIUC in Castellanza, intraprende fin da subito la carriera legale collaborando con diversi studi legali del territorio, specializzandosi in diversi settori.
Nel frattempo, frequenta il Corso per l’abilitazione all’esercizio per la professione di amministratore di condominio.

Nel 2015 diventa avvocato. Dall’abilitazione all’esercizio della professione forense, svolge la professione attivamente, occupandosi sia di pratiche giudiziali e che stragiudiziali.
Collabora, come consulente presso la Comunità di recupero Il Progetto di Castellanza, fornendo assistenza agli ospiti della stuttura e coadiuvandoli nella risoluzione delle problematiche legali.
Da sempre amante dei cani e dal 2013 proprietaria di Charlie.

Nel tempo libero Francesca, oltre a dedicarsi a Charlie, porta a passeggio i cani ospiti dei canili.
Fin da piccola segue con dedizione lezioni di danza classica e di chitarra.
Francesca prosegue nella propria crescita professionale continuando ad approfondire tutto ciò che concerne gli aspetti legali del mondo animale.

Domande e risposte su cani.com

  • Quella del randagismo è una vera piaga sociale, generatrice di crudeltà e accanimento sugli esemplari che vagano per campi e città, foriera di pericoli per la salute e l’incolumità degli umani..

    Sono stimati in circa 600 mila i cani randagi in Italia. Vagano per le strade in cerca di cibo, riparo e certamente di una carezza.

    Solo a far data dal 1991, con l’entrata in vigore della Legge quadro per la prevenzione del randagismo, i cani e i gatti accalappiati vedono riconosciuto il loro diritto alla vita. Fino a quel momento, dopo tre giorni di detenzione, venivano uccisi.

    Nel nostro Paese la tutela degli animali e la lotta al randagismo sono principi fondamentali sanciti sin dal 1991, anno in cui è stata emanata la l. 281/1991 che enuncia il principio secondo cui lo Stato promuove e disciplina la tutela degli animali d’affezione, condanna gli atti di crudeltà conto di essi, i maltrattamenti ed il loro abbandono al fine di favorire la corretta convivenza tra uomo e animale e di tutelare la salute pubblica e l’ambiente.

    Poiché poi la legge quadro statale n. 281/1991 non indica direttamente a quale ente spetti il compito di cattura e custodia dei cani randagi, ma rimette alle Regioni la regolamentazione concreta della materia, occorrerà analizzare la normativa regionale caso per caso.

    Sul punto si è di recente pronunciata la terza sezione civile della Corte di Cassazione la quale ha ritenuto che la responsabilità per i danni causati dai cani randagi spetti esclusivamente all’ente o agli enti cui è attribuito dalla legge il compito specifico di prevenire il pericolo per l’incolumità della popolazione connesso al randagismo, e cioè il compito della cattura e della custodia dei cani vaganti o randagi.

    Nel caso esaminato dalla Corte di Cassazione, per la Regione Lazio, il compito di cattura e di custodia degli stessi nelle apposite strutture è attribuito -anche- ai comuni.

    Ai sensi dell’art. 2 della legge regionale sulla “tutela degli animali d’affezione e prevenzione del randagismo”, sono i comuni, singoli o associati, a dover assicurare il ricovero, la custodia ed il mantenimento dei cani nelle strutture, sotto il controllo sanitario dei servizi veterinari delle aziende USL, in collegamento con le altre competenze riservate aglio enti territoriali tra cui quella di costruzione di nuovi canili e risanamento di quelli esistenti.

    In caso di ritrovamento di un cane, occorrerà dunque preliminarmente contattate la polizia municipale che si occuperà di verbalizzarne il ritrovamento e di contattare il servizio di recupero di zona.

    L’uscita della Polizia Municipale consentirà di certificare il ritrovamento dell’animale sul territorio e automaticamente obbligherà il comune di riferimento a farsi carico del suo mantenimento. Il sindaco è, infatti, responsabile della tutela degli animali presenti sul territorio di competenza.

  • Purtroppo, questa è una questione che ho vissuto in prima persona, dal momento che uno tra i primi veterinari che visitò la mia Lea diagnosticò una “ferita da taglio” (probabilmente causata da un legnetto) quando in realtà si trattava, purtroppo, di un “sarcoma giovanile indifferenziato”, una delle più aggressive forme tumorali esistenti.

    La risposta alla sua domanda è certamente sì. Il medico veterinario risponde di errata diagnosi, negligenza, imprudenza, imperizia.

    La norma di riferimento è l’art. 2236 c.c.

    Poiché l’art. 1176 c.c. fa obbligo al professionista di usare, nell’adempimento delle obbligazioni inerenti la sua attività professionale, la diligenza del buon padre di famiglia, il medesimo risponde normalmente (quindi in caso di interventi routinari e privi di particolare difficoltà) per colpa lieve; nella sola ipotesi in cui la prestazione implichi la soluzione di problemi tecnici di particolare difficoltà, l’art. 2236 c.c. prevede un’attenuazione di responsabilità, nel senso che il professionista è tenuto al risarcimento del danno unicamente per dolo o colpa grave.

    Dopo accesi scontri tra giurisprudenza e dottrina, si è giunti a configurare in capo al veterinario una responsabilità di tipo contrattuale (indipendentemente dalla effettiva sottoscrizione di un contratto a forma scritta).

    Tale forma di responsabilità comporta che il danneggiato (il proprietario dell’animale) per domandare il ristoro dei danni subiti debba rispettare il termine prescrizionale di dieci anni dall’evento, oltre che dimostrare l’esistenza del rapporto giuridico e, naturalmente, il danno cagionato.

    Al veterinario invece spetta l’onere di provare che l’inadempimento, l’errore o la colpa non sono a lui imputabili.

  • Sul punto si è pronunciata la Cassazione in una recentissima sentenza del maggio 2018, in cui si è ribadito quanto già rappresentato dai giudici di merito, ovverosia che l’insorgere della posizione di garanzia relativa alla custodia di un animale prescinde dalla nozione di appartenenza, di talchè risulta irrilevante il dato della registrazione del cane all’anagrafe canina ovvero della apposizione di un microchip di identificazione, posto che l’obbligo di custodia sorge ogniqualvolta sussista una relazione anche di semplice detenzione tra l’animale e una data persona.

    L’art. 672 c.p. collega il dovere di non lasciare libero l’animale o di custodirlo con le debite cautele al suo possesso, da intendere come detenzione anche solo materiale e di fatto, non essendo necessario un rapporto di proprietà in senso civilistico.

  • Il “diritto di abbaiare” è questione, almeno giuridicamente, piuttosto complessa. Nel corso degli anni si sono alternate diverse e contrastanti pronunce dei Tribunali, motivo per cui la Corte di Cassazione ha cercato di fare chiarezza, individuando nell’art. 659 c.p. la norma di riferimento.

    Tale articolo prevede che “Chiunque, mediante schiamazzi o rumori, ovvero abusando di strumenti sonori o di segnalazioni acustiche, ovvero suscitando o non impedendo strepiti di animali, disturba le occupazioni o il riposo delle persone, ovvero gli spettacoli, i ritrovi o i trattenimenti pubblici, è punito con l’arresto fino a tre mesi o con l’ammenda”.

    Affinché si configuri l’ipotesi delittuosa di cui all’art. 659 c.p. non è necessaria la prova dell’effettivo disturbo di più persone, essendo sufficiente la potenzialità della condotta a disturbare una pluralità di persone.

    Il numero di persone cui si reca disturbo deve essere indeterminato. Ciò sta a significare che se ad essere disturbato è solo il vicino (e nessun altro), non v’è reato.

    Non si configura dunque responsabilità penale alcuna.

    Ciò non esclude tuttavia che il vicino possa ricorrere in sede civile e chiedere un risarcimento per il danno paventato.

    Ciò detto, è evidente che la nostra libertà finisce dove inizia quella degli altri. La base di qualsiasi rapporto di convivenza passa attraverso il reciproco rispetto.

  • La nuova legge 220/2012 (Riforma del Condominio) ha modificato in maniera sostanziale la normativa  che concerne il possesso di animali domestici all’interno di un condominio, prevedendo in particolare che i regolamenti condominiali non possano in alcun modo vietare ai singoli condomini di tenere animali nel proprio appartamento.

    Tuttavia, tale possesso di animali non deve andare ad arrecare un pregiudizio nei confronti degli altri condomini.

    A tal proposito il Ministero della Salute con ordinanza 6.8.3023 Gazzetta Ufficiale 6.09.13 ha imposto una serie di regole volte ad evitare eventi di morsicamento da parte dei cani. In particolare ha previsto che nelle aree pubbliche o aperte al pubblico il cane debba essere condotto al guinzaglio di misura non superiore a 1.5 metri. Inoltre è stato stabilito che il padrone debba essere sempre in possesso di museruola, da far indossare al cane in caso di necessità, mentre in ascensore deve essere obbligatoriamente indossata.

    Da ultimo qualora il cane sia di razza definita “pericolosa” la museruola va fatta indossare sempre nei luoghi comuni.

    Ritengo che come prima azione possa essere opportuno instaurare una procedura di mediazione.

  • Per prima cosa complimenti per avere ben 40 cani, sarà un grande impegno, ma anche una grandissima gioia!!

    Per rispondere alla Sua domanda è necessario verificare se Suo comune Vi sono dei regolamenti che per ragioni di igiene o di tutela degli animali stessi, impongano un numero massimo di animali domestici detenibili.