Il guinzaglio, la brandina, la ciotola, il mangime, il collare, la copertina, la museruola, le palline di gomma dura, il tronco per affilare le unghie sono alcuni degli arnesi, più o meno diabolici, che trovano dimora in una casa abitata da un animale-compagno dell’uomo.
Sono fotogrammi di una convivenza attuale tra l’uomo post-moderno e l’animale da compagnia, anzi d’affezione, ormai definitivamente accolto come membro della famiglia allargata; questa rinnovata convivenza, che si consuma in millenni di storia, non costituisce semplicemente un segno dei tempi che cambiano, bensì assume il significato di una dimensione affettiva di riferimento destinata a colmare il vuoto lasciato dalle trascendenti aspettative dell’uomo moderno e dalle ideologie politiche-filosofiche consumistiche della triade Marx-Nietzsche-Freud. In una prospettiva steineriana, l’animale acquisisce la funzione di colmare questo vuoto come surrogato di compagnie, di affetti, di legami nell’estremo tentativo di trovare in esso risposte a domande ignorate.
Ѐ questo ruolo surrogatorio attribuito dall’uomo all’animale d’affezione che ha prodotto incomprensioni, suggestioni, false aspettative relegando, così, l’animale d’affezione (pet) nella dimensione della macchina-animale o dell’animale quasi-uomo. In entrambe le versioni il pet, generalmente il cane o il gatto, ma oggi anche il furetto e il coniglio d’affezione, è svuotato dalle proprie peculiarità etologiche e dalla propria soggettività per essere omologato ai desideri dell’uomo che di volta in volta si aspetta un animale performante per la guardia, per le gare cinotecniche o venatorie, o un animale che faccia compagnia ai bambini, quando non è esso stesso considerato e trattato come un bambino, se non un partner di vita, o a soddisfare il desiderio di dare o ricevere cure e attenzioni o un compagno di giochi.
Dal mancato bilanciamento delle diverse dimensioni relazionali possono derivare le condizioni problematiche legate sostanzialmente al fatto che l’animale è antropomorfizzato (animale trattato come un essere umano) o cosificato (l’animale trattato come uno strumento), in entrambi i casi sono ignorate le sue peculiarità fisiologiche, etologiche, comportamentali, le sue necessità relazionali. Fatalmente rappresenta un animale deficitario destinato a soffrire perché non conosciuto, non capito o a essere abbandonato quando delude le aspettative dell’uomo.
Da queste premesse originano le difficoltà che incontrano i proprietari a gestire i propri animali, che si traducono in oneri per la società che deve fronteggiare gli esiti di queste difficoltà, cioè l’abbandono degli animali “d’affezione”, il fenomeno del randagismo, gli episodi delle aggressioni canine, e quel fardello di norme che impone alle amministrazioni locali di costruire e gestire canili per ospitare i cani abbandonati, i cani randagi, di sterilizzarli sostenendo dei costi improduttivi, dal momento che il canile più capiente sarà destinato a essere saturato, sino a quando, almeno, non si diffonderà il concetto del possesso responsabile, informato e consapevole dell’animale d’affezione.
Gaspare Petrantoni